La Bellezza liberata dalla Materia, il sogno di Bistolfi e dei bistolfiani
«Fino al 1909 [Bistolfi] continua a credere profondamente nelle ragioni del simbolismo. La figura dell’Alpe per il monumento a Segantini inaugura la serie di imponenti statue muliebri cui l’artista affida il compito di incarnare la sintesi dei valori espressi in vita dalla persona commemorata; si tratta ancora di un’immagine slanciata, i tratti sottili ed ispirati, che emergendo michelangiole-scamente dal masso informe sembra tenersi sulla soglia di un’indistinta larvalità». Sì, un’indistinta larvalità: formula perfetta per identificare questa speciale chimera, sgusciante da una mastodontica crisalide di roccia. Larve, chimere: preziose parvenze ectoplastiche, tipiche di un simbolismo metapsichico, talmente intossicato dalle velenose efflorescenze art nouveau. Ascoltiamo ancora Rossana Bossaglia: «Che nella concezione di questo tipo di immagini giocassero an-che in modo preciso le suggestioni delle dottrine metapsichiche, è fuor di dubbio; Bistolfi e Previati sono corifei di tutta una tendenza dell’arte simbolista italiana a ravvisare i propri modelli emblematici nelle parvenze ectoplastiche. Del resto l’amicizia con Lombroso, convinto partecipe delle sedute spiritiche di Eusapia Paladino, nel caso di Bistolfi costituisce un punto di riferimento diretto». Larve, chimere. Sogni. «Il tema del sogno – prosegue la studiosa bellunese – è peraltro uno dei temi dominanti dell’estetica bistolfiana, è anzi il tema principe del suo modo di concepire l’opera d’arte. Bistolfi usa frequentemente espressioni quali “il mio sogno”, “il mio bel sogno”, “il mio sogno tormentoso” per indicare non genericamente un’attitudine sentimentale o una vaga aspirazione, bensì la fase di elaborazione mentale delle sue opere. Il termine “sogno” assume valenze diverse, e diversi gradi di perspicuità teorica, arrivando a esprimere, appunto, lo stadio dell’invenzione artistica quando non è ancora tradotta in opera materiale ma ha già una sua chia-rezza e concretezza fantastica […]. Resta che il concetto di “sogno” applicato all’arte è un concet-to tipicamente simbolista e viene ripreso e sviluppato da molti artisti in questo periodo; se ne co-ronerà il significato nella Biennale veneziana del 1907, quando vari artisti internazionali (Crane, Denis, Stuck, Minne, per citare i maggiori, insieme ai nostri Previati, Chini, Nomellini ed altri) si raccoglieranno a comporre, appunto, la sala dell’arte del sogno».
La storia del monumento a Segantini (la chimera bistolfiana per eccellenza) è interessante e complessa. Ve la raccontiamo, a partire dall’antefatto: la notte del 28 settembre 1899, il pittore Giovanni Segantini morì di peritonite sullo Schalfberg, dove si era recato per lavorare al famoso Trittico della Natura (1896-1899, oggi al Museo Segantini di St. Moritz). In una lettera al “Corriere della Sera” del 13 ottobre 1899, Ugo Ojetti lanciò l’idea dell’apertura di una sottoscrizione per erigere un monumen¬to al defunto artista, da collocarsi sulla tomba di Segantini nel piccolo cimitero di Maloja. Subito dopo, per tale finalità, si costituì un comitato, presieduto dal conte Ar-chimede Martini. Nel novembre del 1899 il mercante d’arte Alberto Grubicy metteva in piedi una mostra di opere di Segantini presso la Società Promotrice di Belle Arti di Milano, l’introito della quale sarebbe andato «a beneficio dei monumenti che s’innalzeranno al Segantini in Arco e a Maloja» (così si legge sul “Corriere della Sera” del 24 novembre 1899). In seguito, probabilmente per la scarsità di fondi, si parlò soltanto del monumento da erigere a Maloja e il Monumento per Arco fu realizzato dopo una diecina di anni. La scelta dello scultore cadde, ça va sans dire, su Bistolfi. Egli era, infatti, uno dei pochissi¬mi artisti italiani contemporanei stimati dal difficile Segantini e inoltre si mostrò felice, onorato di eseguire il monumento per il suo «grande fratello Segantini»: tanto da non aver fatto questione di prezzo, dichiarandosi disposto ad accettare «quel poco che si sarebbe raccolto».
L’esecuzione del lavoro, però, richiese più tempo del previsto e, nel 1904, Corrado Corradino poté vedere solo il bozzetto del monumento, con il bassorilievo della salma di Segantini collocato sulla faccia anteriore e non sulla faccia laterale, come nella versione finale. L’anno seguente, Ottone Brentani, il segretario del comitato, si recò nello studio dello scultore per accertare i progres-si del lavoro e questi gli confermò di aver finalmente chiara la sua idea: «Questo è il quarto o quinto bozzetto da me modellato per il monumento. Pensavo, sognavo, scendevo nello studio, modellavo, ma non era quella l’idea che mi balenava nella mente! Risognavo, ricominciavo, ritenta-vo; tormentavo per giorni e giorni la creta; ma da questa non voleva uscire quello che io volevo ne uscisse. E così passarono settimane, mesi, ed an¬ni. [...] Finalmente una bella mattina mi svegliai; avevo trovato; scesi nello studio; mi accinsi, quasi con furia al lavoro; ed in due ore questo boz-zetto era pronto; questa donna della mia mente, della mente del Segantini era nata». Di questi bozzetti ne rimase, forse, poi solo uno (successivamente fuso in bronzo). Lo scultore non fece in tempo a finire il modello per la rassegna personale all’interno della Biennale di Venezia del 1905. Lo avrebbe tanto desiderato, ma non ce la fece: anche se l’opera figura nella primissima tiratura del catalogo. Verso la fine del 1905 la statua fu terminata in marmo di Car¬rara (di cui lo scultore si lamentò per le troppe venature, anche se, diceva, «sulla carne, non guastano»). La somma per completare l’opera raccolta nel 1906 grazie a una serie di conferenze, esposizioni e sottoscrizioni era risultata del tutto insufficiente (ammontava a 5.000 lire, mentre lo scultore ne aveva già spese, in soli materiali, più 7.000). Nella speranza di raccogliere altri fondi, Alberto Grubicy pro-pose di esporre la statua in marmo nel suo padiglione a Milano, dove aveva organizzato una mo-stra delle opere di Segantini e di Previati, nell’ambito dell'Esposizione Internazionale di Belle Ar-ti, in occasione dei festeggiamenti per l’apertura della galleria del Sempione. Grubicy si impegnò a trasportare il monumento a Maloja, a proprie spese, appena finita la mostra e, intanto, ne pagò il trasporto da Torino a Milano. Che gallerista! Ma erano altri tempi… Quando il monumento in marmo fu esposto nel Padiglione Grubicy a Milano, Thovez lo ritenne perfettamente corrispon-dente a «quel sentimento panteistico della natura, a quella purità verginale di entusiasmo per la bellezza dell’Alpe, a quella serenità raggiante di visione che sono le caratteristiche ideali delle creazioni del Segantini... L’ideale bellezza che il Segantini perseguì con acerrimo amore non po-teva trovare traduzione plastica più eloquente» (16 ottobre 1906). L’opera si rivelava non solo una traslazione del pensiero di Segantini nella figura prncipale, ma pareva declinare una sintesi della sua estetica anche nei particolari: il bassorilievo collocato sulla sinistra del monumento si ispirava alla Natura del celeberrimo Trittico; la sua Dea Arte o Dea d’Amore (1894-1897) appare in visio-ne davanti alla salma dell’artista sul lato destro, mentre il bassorilievo centrale, pur ricordando anche i molti quadri “pastorali” segantiniani, è un più diretto riflesso dello Specchio della Vita (1895-1898) del loro comune amico Giusep¬pe Pellizza da Volpedo, come osserva giustamente Sandra Berresford, alla quale dobbiamo la ricostruzione precisa della genesi del monumento. La statua stessa di una candida figura femminile nuda che emerge a metà dal marmo circostante, fu variamente interpretata come “la Bellezza”, “la Bellezza della Montagna”, “L’Alpe”, “La Verità” e “L’Arte”. Ma il vero titolo lo fece “incidere” Bistolfi stesso, sotto il monumento: La Bellezza liberata dalla Materia. Lo scultore aveva già ideato un nudo femminile che sembrava emergere dalla pietra, nel suo bozzetto Igea (forse da identificare con quello per il Monumento Funerario Pacchiotti a Torino, per questo databile 1895-1896). «Nel Monumento a Segantini però, la figura è ancora immersa nella pietra e le citazioni dai Prigioni di Michelangelo si sono fatte sentire più forti; qui davvero è la mano dell’artista, “la man che ubbidisce all’intelletto”, che libera il concetto contenuto nella grezza materia». Vorremmo altresì ricordare che la figura del monumento a Segantini è anche (seppur non solo) un’allegoria dell’Alpe, una chimerica ninfa alpestre fin de siècle, che si è irrobustita alla scuola michelangiolesca di Rodin. In questo senso si possono ipotizzare, verosimilmente, almeno due lontani antecedenti nostrani del secolo romantico, poi trasfi-gurati dal genio casalese e, come vedremo, da alcuni suoi “adepti”: una è la Musa alpina di Giacomo Ginotti e l’altra è l’estatica Stella boara di Pietro Canonica (1895, ripresa nel 1925 col tito-lo Stella del mattino).
Il monumento, a Milano, fu bene accolto dal pubblico e dalla critica, tanto che Vittorio Pica si sbilanciò pubblicamente, asserendo che il Municipio di Milano ne avrebbe dovuto ordinare una replica da collocare nei giardini pubblici o nel parco (11 agosto 1906). Intanto la stagione era troppo avanzata per portare la statua a Maloja e così Grubicy ottenne il permesso di tenere aperto il suo padiglione, nel parco, fino alla primavera successiva (1907), quando avrebbe potuto effet-tuarne la traslazione. A questo punto il mercante iniziò a trattare con il Municipio di Milano, proponendo di lasciarla alla città in cambio di una locazione decennale per il suo padiglione esterno. Il Municipio rifiutò, ma anche il Segretario del Comitato di Maloja, Brentani, si oppose a tale pro-posito, facendo notare correttamente che Grubicy non aveva il diritto di disporre dell’opera secondo la propria volontà e senza consultare il comitato di Maloja. Il segretario suggerì invece che la statua in marmo potesse rimanere a Milano e che si potesse organizzare una sottoscrizione, di modo che Bistolfi avrebbe potuto eseguire una copia in bronzo per Maloja, materiale che Brentani riteneva più adatto al clima rigido della montagna. A parte l’impossibilità di raccogliere i fondi sufficienti per il progetto (stimati allora in 20.000 lire), l’artista si oppose vigorosamente: «No, bronzo, no! È la montagna che si trasforma in bellezza, è una figura di donna che esce dalla rupe, ed io non voglio una rupe di bronzo! E poi ho pensato questa statua per quella località, in quell’ambiente; ed essa deve andare là». Bisogna sapere, infatti, che Bistolfi si era recato a Ma-loja nell’ottobre del 1901, come testi¬monia un appunto di spese in uno dei suoi taccuini, e proba-bilmente pure in altre occasioni: per ispirarsi, come sua abitudine, nella location (diremmo oggi) del suo lavoro. Scrisse, poi, a Ugo Ojetti che, secondo lui, il marmo avrebbe resistito perfettamen-te al clima di Maloja. Brentani ricorda che, a questo punto, a causa degli strali lanciati del clero locale contro la statua, poiché «nuda e classicamente pagana», e a causa della posizione isolata del cimitero, Bistolfi stava meditandone un collocamento a fianco della Villa Segantini a Maloja, «collo sfondo dei monti nevosi e della cascata dell’Inn». In una lettera del 5 gennaio 1907, però, lo scultore scrisse a Brentani che ancora sperava di poter collocare il monumento sulla tomba del pittore. Il proposito di trasferirlo dalla sua destinazione originaria suscitò una forte protesta, anche da parte di Giovanni Giacometti, allievo di Segantini, che precisò che non esisteva alcuna opposi-zione da parte del clero e che – se anche ci fosse stata il cimitero di Maloja era di gestione laica, appartenente al comune di Stampa. Aggiunse, inoltre, che la tomba era di pro¬prietà della famiglia Segantini e che, con il previsto allargamento del piccolo cimitero, il monumento avrebbe trovato una sistemazione ideale. Nel frattempo (siamo sempre nel 1907) si era costituito, a St. Moritz, un comitato per creare un Museo Segantini, del quale faceva parte Alberto Grubicy. Di sua spontanea iniziativa, pare, e senza aver consultato gli altri membri del comitato di Maloja, Grubicy colse l’invito dei fondatori del costituendo museo a collocare il monumento di Bistolfi là, invece che a Maloja. Il segretario del comitato di Maloja protestò vigorosamente e ufficialmente la grave irre-golarità di questa transazione, anche se dovette, alla fine, accettare il «fait accompli». Tre mem-bri del suo comitato, «viste le difficoltà di vario ordine» per il colloca¬mento della statua a Maloja, accettarono l’invito di St. Moritz a cui, infine, la cedettero. Anche Bistolfi, controvoglia, si ras-segnò a cederla. Lo fece dopo essersi consultato con Grubicy; a lui sibilava, il 2 ottobre 1910: «La statua che io avevo fatto e dedicato alla tomba di Segantini è stata ceduta da lei al Museo di St. Moritz dopo che io avevo avuto l’assicurazione ch’essa sarebbe stata collocata nel¬le stesse condi-zioni d’ambiente e di luce del Padiglione suo a Milano».
Così l’opera fu portata a St. Moritz, dove venne temporaneamente collocata nell’atrio di un albergo e successivamente nel peristilio del Museo Segantini, disegnato dall’architetto Hartmann, che aprì il 25 ottobre 1908. Bistolfi rimase deluso dalla si¬stemazione all’interno del museo e se ne lagnò col signor Nater del comitato, con lo stesso Hartmann e con Grubicy. Ugo Ojetti, nel 1911, confermava come fosse effettivamente «imprigionata e soffocata lassù in una specie di tana chia-mata museo» (p. 131). Grubicy consigliò allo scultore di recarsi di nuovo in loco, per sistemare l’opera a modo suo. E avvenne indubbiamente in seguito alle proteste – ma non si sa se per inter-vento diretto – dell’artista che alla scultura si diede (entro il 1911) una nuova collocazione, fuori del Museo, in mezzo a un prato e “incoronata” dalle montagne. Dopo il 1948, fu spostata di nuovo sulla strada d’accesso al museo, se non proprio in mezzo alle montagne (come Bistolfi l’aveva concepita), almeno in mezzo al verde e alla luce del giorno.
La storia del monumento, già molto complessa per se stessa, è ulteriormente complicata dall’esistenza di un secondo esemplare in marmo che l’artista donò, nel 1915, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dove si trova tutt’oggi. Della testa dell’Alpe esistono alcuni esem-plari in gesso e altri in marmo, probabilmente tratti dai bozzetti specifici fatti per lo studio e l’elaborazione della stessa. Gli esemplari in marmo, più rari, erano a volte utilizzati dallo scultore per omaggi di una certa importanza e quindi, talvolta, risultano dedicati ad personam. Si conosco-no anche delle fusioni in bronzo, sia della testa sia del bozzetto della figura intera, ma sono poche, giacché – come si è visto – l’autore non amava pensare o tradurre quella sua opera in tale materia-le.
Abbiamo accennato all’influsso de La Bellezza liberata dalla Materia sugli allievi-collaboratori di Bistolfi, i cosiddetti “bistolfiani” (per usare un termine ormai messo in discussione dagli stu-diosi specialisti, in quanto assolutamente generico e generalizzante): il primo a riflettere sul Monumento a Segantini sembrerebbe Arturo Stagliano, che inventa una singolare ninfa alpina immersa in un vasto gregge di pecore; e parrebbe farlo appena arrivato a Torino (1904-1908), quindi proprio nel periodo di gestazione del capolavoro monumentale del maestro. Oltre a essere un inte-ressantissimo punto di giunzione fra pittura e scultura (superato ormai il mero trattamento impressionistico della materia di matrice scapigliata), in ossequio alla tavolozza morelliana felice-mente brandita da Arturo nel periodo Napoletano e Caprese, oltre a ciò – dicevamo – l’opera di Stagliano fa esplicito riferimento al simbolismo “alpestre” di Segantini e di Pellizza da Volpedo. L’argentino César Santiano poi, nel 1916, si cimenta in una sua robusta ma fedele interpretazione di quella medesima figura slanciata che, «emergendo michelangiolescamente dal masso informe, sembra tenersi sulla soglia di un’indistinta larvalità». In ultimo, il piemontese Giacomo Giorgis (1887-1959), discepolo parigino di Rodin, inventa e traduce in marmo una fluida e fluente visione propria della bellezza ribelle all’amorfa schiavitù dell’indistinto (siamo nel 1919).
Il nostro discorso su Bistolfi e Segantini lo chiudiamo a tono, con una nota di Donatella Taver-na: «La Bellezza della Montagna, luminosa figura muliebre che emerge da un blocco imitante una vetta, come liberata, rappresenta forse il momento di una espressione pacificata. La “materia sor-da” ha udito l’artista e gli rivela le sue bellezze segrete. Non a caso questa liberazione della Bel-lezza ideale dalla materia si esprime nell’atto di celebrare un pittore, ed un pittore amico e stimato da tanti anni, che per l’arte ha dato, secondo una interpretazione romantica ma non troppo di-stante dalla realtà, la vita».
Testo tratto da: Armando Audoli, Chimere. Miti, allegorie e simbolismi plastici da Bistolfi a Mar-tinazzi, Torino, Weber & Weber, pp. 8-17.